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CIRCOLO MUSICALE
MAYR-DONIZETTI
BERGAMO-ITALY
39ª STAGIONE OPERISTICA 2013/2014 - NOTE DI REGIA

 

26 Ottobre 2013 - Lohengrin - pagine scelte e omaggio a Johann Simon Mayr
Poiché delle due opere Medea in Corinto e Lohengrin, saranno eseguite solo alcune pagine significative sarebbe improprio parlare di una vera e propria «lettura registica» o pretendere di puntare ad una certa compiutezza espositiva: il mio scopo è, piuttosto, creare un’occasione di riflessione.
Questi due titoli – differenti per stile, vocalità e struttura drammatica – hanno un elemento comune: si tratta infatti di due grandi leggende che, benché diverse per origine e ambiente, affondando le loro radici nel terribile e meraviglioso mondo del “tempo senza tempo” del mito e ci immergono in un’antichità ancestrale (greca o germanica che sia, poco importa) in qualche modo fondante della nostra cultura. La mia proposta si muove quindi da questo presupposto e sarà legata ad immagini riferibili in modo palpabile a sentimenti a noi propri fin dalle età più lontane.
Per Medea in Corinto proporrò una netta divisione tra l’elemento legato alla vocalità e quello proprio delle immagini. Per l’avvio della narrazione ho scelto di evocare un contatto diretto con la più arcaica tradizione pittorica ellenica e nella parte posteriore del palco comparirà dapprima un’immagine proveniente da un’antica pittura vascolare a figure nere, cui seguirà, senza strappi, un gioco di attualizzazione dell’immagine antica: delle silhouette – attraverso un susseguirsi di movimenti stilizzati e simbolici – accompagneranno la vicenda lungo le tappe fondamentali. Con questa scelta vorrei stabilire un confronto tra la prospettiva drammaturgia neoclassica di Mayr ed il clima di staticità tipico della natura più antica della tragedia greca: una “danza rituale” muta ed imitatrice delle più colpevoli inclinazioni umane, purificate dall’accompagnamento di un canto inteso come commento e sostegno esterno.
Un procedimento analogo ha guidato anche le mie scelte per Lohengrin, nella cui lettura continuerà il concetto di divisione: da una parte del palco scorreranno immagini legate da alcune parole chiave pronunciate dai protagonisti, mentre sul fondo appariranno ambientazioni naturali, di carattere oleografico e romanticamente ottocentesco e sostanzialmente statico. I brevi testi, come stralci poetici, avranno lo scopo di offrire all’ascoltatore un’evocazione transitoria della fusione poesia-immagine-musica.
Entrambe le proposte vogliono essere in definitiva la spinta verso suggestioni libere e dirette da parte del pubblico: in altre parole, vorrei riuscire nell’intento di “suscitare e suggerire” piuttosto che “spiegare e raccontare”. Il condizionale è d’obbligo!

a cura del Prof. Valerio Lopane, musicologo e regista.


 

15 Novembre 2013 - Luisa Miller
Luisa Miller è considerata dalla maggior parte della critica come una tappa del cammino evolutivo di Giuseppe Verdi e, per molti aspetti, un anticipo della Traviata: in particolare, la fisionomia diLuisa sembra ampiamente anticipare la figura più intensa di Violetta e molti tratti comuni tra le due opere appaiono costantemente, producendo singolari parallelismi.
Ma questo melodramma, costruito sull’efficace – e all’epoca molto nota – tragedia di Friedrich Schiller – Kabale und Liebe. Ein Bürgerliches Trauerspiel, 1783 –  (Intrigo e amore. Una tragedia borghese), rappresenta anche molto altro: esso è certamente il primo incontro, tanto per Schiller quanto per Verdi, con il clima borghese – incontro condotto sul filo spinoso di un amore vietato – ed è interessante notare come questo aspetto vincente sarà ripreso nella successiva Trilogia popolare verdiana, dove pure continuerà a delinearsi la profonda e riuscitissima scissione tra i caratteri femminili e quelli maschili, diversamente schiacciati tra valori antichi – onore e virtù – e la degenerazione della rettitudine nobiliare, la macchia dell’inganno, la menzogna, la violenza, il delitto e la smodata sete di potere. Tra le figure di Luisa e Federica trovano spazio tuttavia anche sentimenti di comprensione reciproca, di rifiuto e di sacrificio in nome dell’amore, in un’intensità ben superiore a quella che legherà Violetta, Flora ed Annina. In Luisa Miller irrompe poi lo sconvolgimento sociale dettato dalla caduta della nobiltà di fronte alla borghesia, nuova classe dominante pronta ad usurpare un ruolo che la vecchia aristocrazia non intende cedere.
L’opera è quindi molto più di un’esercitazione per quello che sarà il futuro teatro verdiano ed emerge – vitalissima – la prova drammatica del primo autentico librettista di Verdi; Salvadore Cammarano, uno dei pochi “veri”, riesce infatti – forse più per istinto che per reale consapevolezza – a dare coerenza e sintesi a tutti questi spunti, creando una vicenda particolarmente spedita e convincente, in cui gli affetti più puri risultano tragicamente soffocati da ragioni immediate e spicce – più borghesi e meno romantiche – eppure forti e definitive.
Proprio per restituire alla vicenda la particolare immediatezza comunicativa e l’incisività che sono presenti nella musica e nel libretto, ma non nell’ambientazione e nell’epoca originale, muterò la cornice e l’epoca con un décor non tradizionale: non un idilliaco paesino alpestre secentesco, bensì cime montuose ed asciutte, dominate dal solo rudere del castello di Walter, che incomberanno minacciose sui singoli personaggi e sul loro ineffabile ed immutabile destino. Coerentemente riadatterò l’epoca alla seconda metà dell’Ottocento, in piena Seconda Rivoluzione Industriale: i contadini diverranno operai e minatori, le loro donne e i loro bambini porteranno ceste di carbone e misere vettovaglie, come immagine di un mondo non più rurale ma non ancora proletario; infine, il vecchio ed austero Miller sarà un soldato ossessivamente legato alla figlia, proiettato in una società borghese e economicamente produttiva, incapace di riconoscergli valori fatti semplicemente di onore e di famiglia.
Wurm e Walter, nobili ormai in decadenza, emergeranno come aggrappati al delitto e alla violenza, uniche illusorie possibilità di riscatto di fronte alla dominante crescita capitalista. Durante lasinfonia mostrerò – come antefatto – quale patto delittuoso esista tra i due e come questo patto sia rivelato all’incredula coscienza di Rodolfo. Federica rimarrà come unico personaggio totalmente positivo della vicenda, ultimo raggio di nobiltà e di sentimentalismo, ma la sua presunta superiorità morale produrrà, anche in lei, un’inesorabile sconfitta.
I più colpiti saranno, in definitiva, Luisa e Rodolfo, giovani ed ignari che – illusi dal miraggio positivo del futuro e dal  “progresso generazionale”– tenteranno sino all’ultimo di opporsi al grigio macigno che incombe. In questo setting da Rivoluzione Industriale, la loro titubanza e la loro fragilità, così come il loro latente desiderio di morte – forse più psicotico che sentimentale – incarneranno lo sconvolgimento sociale in cui gli ideali e i valori del Romanticismo giungono al tramonto, mentre si affaccia una nuova morale sgombra di sentimenti e compiaciuta dall’aridità dei “risultati”: il nascente Positivismo.

a cura del Prof. Valerio Lopane, musicologo e regista.


 

13 Dicembre 2013 - Rigoletto
Il mio primo approccio in preparazione di una nuova regia si muove sempre da un accurato ascolto musicale. Paradossalmente, trovo questa strada ancor più necessaria se il titolo è celeberrimo: ad ogni nuovo incontro musicale, pur dopo una lunga consuetudine, emergono infatti immancabilmente tratti mai colti prima. Nel caso di Rigoletto, dopo innumerevoli allestimenti fatti e visti, al nuovo ascolto mi si affaccia un senso di immane grandezza: in primo luogo di Verdi stesso e, subito dopo, grandezza e dilatamento di tutti i sentimenti posti in gioco in questo mirabile lavoro. Il musicista, nell’animare con le sue note la vicenda, è stato, più del solito – il che è tutto dire – anche puntualissimo ed attento regista della globalità della creazione melodrammatica: Rigoletto è, grazie a lui, prima di tutto un congegno scenico e musicale perfetto che si muove con un’urgenza ed una comunicativa che ci lascia sbalorditi. Mi sono dunque più che mai convinto che quest’opera non lasci spazio a piccoli o grandi arbitri intesi a rendere più agile o più chiara la vicenda.
L’immaginario legato a quest’opera è troppo codificato in noi tutti e in qualche modo Rigoletto rivendica con prepotenza la “sua” iconografia tradizionale per cui si è rafforzata in me la volontà di rinunciare a percorsi alternativi e condurre invece il mio allestimento proprio entro i contorni – perfettamente delineati da Verdi – del suo alveo “naturale”. Rigoletto, infatti, non pone né questioni di intrico narrativo né di staticità scenica: la storia corre da sé rapida e chiara. Ho scelto, dunque, un allestimento tradizionale, anzi “storico” sia per l’epoca sia per i costumi. Le scene saranno riconducibili ad antichi fondali e dipinti ottocenteschi; ai cantanti sarà richiesto un gesto ispirato al retaggio delle “pose sceniche”. Su quest’ultimo punto concentrerò il mio intervento più marcato; la mia prima intenzione è infatti valorizzare il formidabile pensiero teatrale verdiano, senza rinunciare a gesti e posture di sapore remoto, con richiami ad un bagaglio ricchissimo, lasciatoci in eredità da tanti sommi artisti della storia dell’interpretazione che hanno formato la nostra grande tradizione lirico-teatrale. Vorrei dunque presentare un Rigoletto puro e schietto che ci conceda di cogliere – senza sovrastrutture non necessarie – i suoi propri altissimi frutti non solo in senso musicale e vocale ma, possibilmente, anche in senso melodrammatico a tutto tondo, cioè secondo la formula che si appoggia sulla limpida fusione di gesto, espressione, voce e colore.

a cura del Prof. Valerio Lopane, musicologo e regista.


 

24 Gennaio 2014 - Don Giovanni
I tratti fondamentali della vicenda di Don Giovanni sono antichi e profondamente radicati nella tradizione narrativa occidentale. Il tema del “convitato di pietra” e l’implicita condivisione del cibo tra vivi e morti è infatti riconducibile ai primordi della storia della narrazione. Quest’argomento riveste poi una duplice e contraria valenza: è suggello di un patto ineluttabile legato al destino della morte terrena (o dell’abbondono della vita), ma è anche metafora di trionfo dell’esistenza umana sulla fugacità della vita stessa. Spesso il “mangiare con i morti” si trasfigura in riti di rinascita - con possibili estensioni anche verso l’elemento sessuale - derivato dal concetto di resurrezione. Questi caratteri trovano la loro massima manifestazione nel dramma barocco francese o spagnolo che elegge come protagonista il nobiluomo: a questo filone fa direttamente riferimento sia il magistrale libretto di da Ponte sia lo straordinario clima musicale plasmato da Mozart.
Allestire Don Giovanni vuol dire quindi porsi di fronte ad uno dei massimi capolavori del teatro musicale di tutti i tempi ma è anche un’occasione per rievocare una liturgia ancestrale e mitica di lotta tra il bene e il male, tra la vita e la morte.
Per rendere questo complesso di suggestioni introdurrò come specifico elemento scenico un insieme di muri, che occuperà la scena fungendo sia da sostegno materiale sia da limite fisico: i protagonisti vi si troveranno di volta in volta imprigionanti, difesi, aggirati. Ognuno di loro sarà virtualmente assimilato ad una sezione rettangolare mobile plasmata sulle proprie fragilità e ambizioni. Il contatto e l’opposizione di queste strutture darà origine a confini e varchi e a “stanze” familiari e sicure, ma anche a enigmatici labirinti,  in cui i cantanti si inseguiranno, si ritroveranno, si smarriranno in un gioco senza fine. Vorrei in definitiva che rivivesse il valore simbolico che anche il grande poeta Eugenio Montale attribuì proprio al concetto di “muro” in due sue celebri poesie: Meriggiare pallido e assorto e Non chiederci la parola. Il muro sarà il principale elemento caratterizzante in scena e, grazie a questa presenza, i personaggi saranno percepibili anche attraverso la manifestazione della loro ombra, intesa come confine visibile tra il mondo dei vivi e quello dei morti. I continui passaggi porteranno ad avvertire l’esistenza di qualcosa che sta “oltre” il muro, cui è difficile impossibile accedere; solo don Giovanni, come precisa da Ponte nel recitativo che precede la scena del cimitero, oserà sfidare il valico ma, una volta dall’altra parte, gli sarà fatalmente impossibile ritornare al mondo dei vivi.

a cura del Prof. Valerio Lopane, musicologo e regista.


 

21 Febbraio 2014 - Andrea Chénier
Andrea Chénier è un’epopea dell’Amore e, alla luce corrusca di una violenta ed attendibile descrizione della Rivoluzione Francese, la ghigliottina –attestata come simbolo di libertà e di giustizia–, diviene strumento di repressione politica, di negazione di libertà e di sfinimento spirituale, ma anche spinta verso un arricchimento emotivo. Ed è proprio in virtù di questo travaglio che nascono i più puri sentimenti. Da un clima di “sangue e fango” nonché dall’Amore, ottengono linfa il patriottismo poetico e ideale del protagonista, la sete di giustizia di Gérard e il nobilissimo tentativo di emancipazione femminile di Maddalena. Anche il libretto di Illica giustappone con abilità un primo atto tutto Ancien Régime ed una successiva narrazione “alla Rivoluzione”, creando un’idea di “prima” e di “dopo” rispetto al momento simbolo della Presa della Bastiglia. Bisogna, poi, ricordare che, all’epoca della prima assoluta dell’opera, il genere settecentesco stava vivendo una grande fortuna teatrale con un profluvio di galanterie rococò, di egloghe arcadiche, di vezzose pastorelle sedotte e di audaci pastori. Nell’immaginario collettivo tardo ottocentesco, il secolo delle grandi favorite di Luigi XV e del successivo déluge [diluvio], significava lascività corrotta ed insinuante in contrasto ai nascenti Neoclassicismo e Romanticismo. Doveva inoltre percepirsi il cupo pessimismo di fondo legato alla nuova condizione dell’uomo di fine secolo, ormai consapevole della fallibilità dei nuovi valori borghesi. Questo quadro storico fu poi esasperato dalle tendenze letterarie e teatrali veriste e finì per sconfinare verso un erotismo scoperto e distruttivo. Da un Settecento incipriato ed imparruccato oggi, però, emergerebbe una scarsa presa emotiva e poco ci rivelerebbe l’affresco di una nobiltà malata, alternata a gruppi di Giacobini in capelli frigi e cuffie bianche che ballano la Carmagnola sulle tombe dei Giorondini.
Ecco quindi, la mia decisione di spostare la vicenda in un diverso contesto rivoluzionario che fosse oggi perfettamente tangibile: il grande sommovimento culturale e sociale che è stato il 1968 parigino. Periodo discusso, amato o denigrato, che vive, come tutte le rivoluzioni, di contrasti, incoerenze, gesti nobili e bassezze. La festa del primo atto diverrà una ricevimento alto-borghese in cui lo snobismo arrogante della Contessa e la vuotezza capricciosa di Maddalena faranno da trampolino verso il clima che emergerà negli atti successivi, fatto di sete di equità sociale, di riscatto sessuale e morale, di assemblee popolari, di Comuni e di processi sommari.
Anche in questo caso gli ideali filosofici, all’atto della loro applicazione pratica, si muteranno in un mostro orribile e pericoloso e i protagonisti, proprio come molte figure del ‘68, pagheranno con lo squallore di una sopravvivenza delusa –o persino con la vita– il prezzo della temperie rivoluzionaria e della coerenza alle istanze d’Amore, di Libertà e di Giustizia.

a cura del Prof. Valerio Lopane, musicologo e regista.


 

21 Marzo 2014 - La Cenerentola
La Cenerentola è un’opera veramente unica non solo per l’alta qualità e l’abbondanza della sua musica, ma anche per l’incredibile valore del suo libretto. È questa una delle poche occasioni in cuiRossini si è cimentato a musicare un testo che, oltre ad essere scorrevole e scenicamente efficace, è pure ricco di comicità sottile, raffinata, diretta. Oltre a questi tratti di pregio, va rimarcato come tutta la narrazione poetica sia pervasa da quella mezza tinta dolcemente malinconica tipica del primo Ottocento e nota come melodramma larmoyantRossini, seguendo con la sua genialità le suggestioni del librettista, rende meravigliosamente questo clima soffusamene preromantico. Assistendo ad una recita riuscita di La Cenerentola, si ride e si deve ridere; ma se l’allestimento “funziona”, è giusto che sfugga anche qualche lacrimuccia; se da un lato si resta infatti contagiati da momenti esilaranti come lo spassoso travestimento di Dandini non ci si deve stupire di una certa commozione di fronte alle umiliazioni che precedono il lieto epilogo dalla vicenda umana di Angelina. Alla fine più che l’euforia della risata ciò che più ci appaga è la complicità che insorge nei confronti di questa semplice fanciulla nel cammino verso il giusto premio per tanta bontà. Il trionfo, cioè la prospettiva di una vita coniugale felice, è però raggiunto solo dopo aver patito e dopo aver saputo concedere il perdono alle crudeli sorellastre e al bieco patrigno. A tal proposito non dobbiamo dimenticarci che La Cenerentola, anche in virtù di questo cammino iniziatico, è una fiaba per antonomasia. In essa infatti le figure degli antagonisti di prammatica, apparentemente più comici che crudeli, appaiono contaminate da elementi di magia ed aiutanti magici. Ferretti coglie lo spunto introducendo nella vicenda la figura di Alidoro “maestro e filosofo”, autentica risposta illuministica alla fata madrina di Cendrillon / Conte de Fées del grande Charles Perrault. Nella mia lettura registica, per rendere conto di questi presupposti sarà mia guida la celebre lezione del maestro Jean-Pierre Ponnelle. Per questo ho deciso di ripercorre le sue orme con una libera interpretazione, intesa come omaggio, di una sua edizione che, per freschezza, forza comunicativa e spontaneità, rimane attualissima benché risalga a quarant’anni fa. Coerente al modello tenterò di riproporre la perfetta fusione di smagliante comicità e di delicato patetismo sentimentale. Diverse saranno invece le entrate ed uscite di attrezzi ed elementi di scena e la dinamica scenografica, giocata sulla festosa salita e discesa di proiezioni e fondali originali, ideati da Elisa Gandelli.

a cura del Prof. Valerio Lopane, musicologo e regista.


 

11 Aprile 2014 - Lucia di Lammermoor
Con Lucia di Lammermoor di Donizetti, in una sola opera convivono, si intrecciano e trovano contrasto lo spessore cupo di una drammaticità decisa, la contemplazione estatica dell’amore, il clima notturno tempestoso e le lattiginose brume dei sepolcri. In altre parole, Lucia di Lammermoor, parafrasando una vicenda tratta dal romanzo di Walter Scott La sposa di Lammermoor, presenta al massimo grado i caratteri del melodramma romantico, ambientati in una Scozia dai contorni incerti e nebbiosi. La poliedrica esperienza di Salvadore Cammarano ci offre tra l’altro un libretto nuovo per stile, per efficacia e soprattutto per compattezza narrativa, in cui l’uso della suddivisione in parti rende possibile astrarsi dai vincoli aristotelici e neoclassici dell’unità di tempo e di luogo riuscendo comunque a rendere l’effetto di un’evoluzione drammaturgica che abbraccia qualche mese. La conseguenza è una rapida ed incisiva narrazione, inserita nella possente cornice di un medioevo che volge al termine ma non è ancora del tutto concluso. L’ambientazione, ormai lontana da stereotipi di dame e cavalieri, riconduce piuttosto a sensazioni di torri cadenti ricoperte di edera, ruderi gotici e tempeste, dove lampi improvvisi illuminano brughiere sferzate dalla pioggia. A fronte di questi tratti esteriori ma determinati emerge la nuova volontà donizettiana di presentare i sentimenti che animano i personaggi con una veridicità netta e diretta, ma aperta a spunti soprannaturali ed irrazionali. Il fantasma di una fanciulla innocente, progenitrice di Lucia, non cessa di alimentare la faida tra Asthon e Ravenswood; scie di sangue, che sgorgano da questo passato misterioso, rianimano la forza degli odi e dei contrasti politici che formano la spinta drammaturgica della vicenda. L’apparizione onirica non è solo antefatto della vicenda, ma diviene per Lucia una rappresentazione attuale della sua condizione femminile infelice che, sotto tragici segni premonitori, la porta a sottrarsi agli uomini. Questa “predestinazione” si insinua in Lucia come possibile redenzione della progenitrice e ci conduce all’ultima tappa di morte immediata e violenta nella progressiva demenza.
L’alto spessore assegnato al personaggio di Lucia è amplificato dal fatto che quando gli “altri” agiscono accanto a lei (il fratello, l’amante, il confessore, il suo sposo), la vicenda pare svuotarsi e ripiegarsi su se stessa. Questo contrasto permette a Lucia di stagliarsi come figura essenzialmente solitaria. Lucia è condannata a non comunicare con chi la circonda. Paradossalmente, gli unici suoi dialoghi “compiuti” risiedono nel sogno e nella follia mentre il coronamento del suo amore è fatalmente subordinato all’assassinio e al distacco dalla realtà. Attorno a questi aspetti singolari dell’opera ho costruito la mia proposta registica. Ho dunque scelto come base visiva un insieme di scene naturali e tradizionali, animate da contrasti interni volutamente accentuati, che marcheranno la distanza tra i personaggi maschili e la figura Lucia. Per le scene ho previsto esterni evocativi della fissità di Lucia e ispirati ad un clima di sacralità forestale e mistica (con spunti dalle leggendarie pitture di Karl Friedrich Schinkel); con gli interni intendo invece richiamare situazioni più politiche e terrene, “a dinamica maschile” (con riferimenti alla cupezza claustrofobica di Rembrandt). Anche tramite i costumi vorrei suggerire una chiara caratterizzazione delle appartenenze e delle diverse spinte drammatiche. Il contrasto cromatico sarà particolarmente evidente nella Scena della Pazzia dove alla bianca tunica notturna di Lucia sarà contrapposto un contorno di figure scure.

a cura del Prof. Valerio Lopane, musicologo e regista.